L’avvento del cristianesimo impone la costituzione di un repertorio di immagini distinto da quello pagano. E’ necessario esprimere contenuti dottrinali assolutamente nuovi.
Ad adeguarsi a questa realtà, sono gli artigiani. Essi, infatti, continuano a lavorare per una committenza pagana e, nello stesso tempo, adattano i propri repertori e il proprio stile alle esigenze dei nuovi clienti cristiani.
Nuovi significati per una nuova clientela
Il repertorio cristiano deriva direttamente dall’arte greco-romana ma esprime concetti nuovi. Prima dell’editto di Milano del 313, con il quale si riconosce la libertà religiosa per i cristiani in tutto il territorio dell’impero romano, è difficile trovare immagini riconducibili direttamente a Gesù Cristo o alla Vergine. La più antica immagine della Madonna, ad esempio, risale alla prima metà del III secolo nelle catacombe romane di Priscilla.
Al contrario, molto più frequenti sono le rappresentazioni dei profeti dell’Antico Testamento (Daniele, Giona e Noè) le cui storie prefigurano la vicenda del Redentore.
Insomma, le prime immagini cristiane, nelle catacombe e nei primi luoghi di culto pubblici e privati, sono dedotte da un’iconografia già consolidata, ampiamente in uso per la committenza pagana dell’impero romano.
Daniele nella fossa dei leoni
Daniele è uno dei quattro grandi profeti dell’Antico Testamento, con Isaia, Geremia ed Ezechiele. Egli assume il ruolo di governatore dei Sàtrapi dal re babilonese Dario. Tuttavia, non è visto di buon occhio dagli altri collaboratori che cercano, in ogni modo, di screditarlo fino a quando non convincono Dario a promulgare un severo decreto contro chi rivolge suppliche a Dio o a un altro re. Si legge nell’Antico Testamento:
«Daniele non ha alcun rispetto né di te, re, né del tuo decreto: tre volte al giorno fa le sue preghiere». Allora il re ordinò che si prendesse Daniele e si gettasse nella fossa dei leoni. Il re, rivolto a Daniele, gli disse: «Quel Dio, che tu servi con perseveranza, ti possa salvare!». Poi fu portata una pietra e fu posta sopra la bocca della fossa. […] La mattina dopo, il re si alzò e chiamò: «Daniele, servo del Dio vivente, il tuo Dio che tu servi con perseveranza ti ha potuto salvare dai leoni?». Daniele rispose: «Re, vivi per sempre. Il mio Dio ha mandato il suo angelo che ha chiuso le fauci dei leoni ed essi non mi hanno fatto alcun male, perché sono stato trovato innocente davanti a lui; ma neppure contro di te, o re, ho commesso alcun male». Quindi, per ordine del re, fatti venire quegli uomini che avevano accusato Daniele, furono gettati nella fossa dei leoni insieme con i figli e le mogli. Non erano ancor giunti al fondo della fossa, che i leoni furono loro addosso e stritolarono tutte le loro ossa.
La figura di Daniele, quindi, è interpretata come un esempio della fede cristiana, della forza della preghiera, della resistenza al leone/diavolo, come prefigurazione del trionfo di Cristo sulla morte.
All’epoca delle persecuzioni, Daniele è visto come l’archetipo del martire, salvato per la tenacia della sua fede. La fossa dei leoni, dopotutto, sigillata dal re Dario, rimanda al sepolcro di Cristo davanti al quale è stata rotolata una grossa pietra.
Daniele, dunque, è raffigurato come un orante con le braccia alzate e le mani rivolte al cielo ed evoca, perciò, Cristo con le braccia distese sul legno della croce. Placare il furore delle belve è una prefigurazione della pace cosmica dei tempi messianici mentre i leoni ammansiti ristabilirebbero l’ordine voluto da Dio all’inizio della creazione.

La vicenda di Giona
La storia del profeta ebraico Giona è narrata nell’omonimo libro dell’Antico Testamento e prefigura la vicenda di Gesù. Disobbedendo all’ordine del Signore di andare a predicare nella città di Ninive, Giona si ritrova, a causa di una tempesta, in mare aperto e viene inghiottito da un grosso pesce (secondo la tradizione, l’animale è una balena).
Dopo tre notti passate nel ventre del pesce, in adorazione al Signore, Giona è rigettato su una spiaggia ed esegue la sua missione tra gli abitanti di Ninive.
Più significativa dal punto di vista iconografico, invece, è la raffigurazione di Giona che dorme sotto una pianta di ricino e che rimanda alla parte finale della sua missione nella città di Ninive.
La scena del riposo è una reinterpretazione di una consolidata iconografia pagana, quella di Endimione addormentato, il giovane personaggio della mitologia greca rapito da Selene (la Luna per i Romani) innamoratasi della sua bellezza.

La nudità agreste di Endimione che dorme sotto un albero si adatta perfettamente alla situazione disperata del naufrago biblico. Insomma, lo schema e i gesti sono gli stessi ma sono adattati al nuovo contesto cristiano.

Il Buon Pastore
L’esempio più limpido di recupero dell’iconografia pagana in chiave cristiana è l’immagine del Buon Pastore, simbolo per eccellenza della benevolenza di Cristo nei confronti degli uomini.
Nel Salmo 23 (Antico Testamento), Davide esclama: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome”. Nel libro del profeta Ezechiele, si parla di una pecora perduta che verrà ricondotta all’ovile. Nel Vangelo di Giovanni, invece, Gesù si definisce «pastore delle pecore» ovvero sicura guida dei cristiani.
Un motivo comunissimo del repertorio classico di genere, il moschophoros, il pastore che porta sulle spalle un animale, diviene senza alcuna modifica l’immagine del Salvatore.

La scultura rappresenta un uomo giovane e robusto che avanza portando sulle spalle un vitello destinato ad essere offerto alla dea Atena. Grazie all’iscrizione, è stato identificato il nome del dedicante, Rhombos, figlio di Palos, un allevatore ateniese che si accinge a compiere il sacro rito dell’offerta. Un corrispettivo esemplare cristiano, che ne ricalca la posa e l’atteggiamento, è la statua a tutto tondo del Cristo Buon Pastore dei Musei Vaticani:

L’immagine è replicata anche sugli affreschi delle catacombe assumendo un significato cristologico e ispirandosi alla parabola della pecorella smarrita. Il Cristo è, così, rappresentato come un umile pastore con una pecorella sulle spalle, mentre vigila un piccolo gregge, talvolta costituito da due sole pecore poste ai suoi fianchi.

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Un salto nei secoli …
Tempo fa, mi sono imbattuto in questa scultura raffigurante il vecchio Sileno che culla Dioniso, il dio della viricoltura, figlio di Zeus e di Sèmele, meglio conosciuto come Bacco. Secondo la mitologia, l’educazione di Dionisio è affidata a sette ninfe, ad Ino e a Sileno, qui rappresentato con un corpo agile e vigoroso, nonostante la sua tarda età, appoggiato ad un tronco attorno al quale si avvolge una vite.
Lo stesso atteggiamento affettuoso, paterno e protettivo, a mio avviso, si può riscontrare anche nelle innumerevoli rappresentazioni scultoree (a mezzo busto o a figura intera) di San Giuseppe con Gesù Bambino, diffuse soprattutto in area napoletana e meridionale tra il XVIII e il XIX sec. ad opera di artisti locali, specializzati nella lavorazione del legno.
Gli attributi iconografici sono ovviamente differenti: ai riferimenti naturalistici della vite, si sostituiscono il bastone, il giglio (simbolo di purezza) o un oggetto di carpenteria che allude all’attività lavorativa del padre di Gesù. Il Bambinello, poi, può assumere varie posizioni: spesso si rivolge ai fedeli in atto benedicente, può essere rappresentato sveglio o addormentato, o nell’atto di accarezzare il volto del padre.
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