L’arte Informale in Italia

L’esperienza della Seconda Guerra mondiale segna vincitori e vinti, per i lutti personali e per quelli ideologici. Dopo tale tragedia, segnata dall’Olocausto e dall’uso dell’arma atomica, non è più possibile progettare una società su modelli utopici e, dunque, neanche progettare un’opera su moduli formali stabiliti.

L’arte si stacca dal mondo per farsi espressione di un pessimismo individualista. L’opera d’arte, dunque, non nasce da un progetto a priori ma in un processo di improvvisazione psichica per prove ed errori, da un fare il cui risultato si compie solo a posteriori.

Le bombe atomiche cadute ad Hiroshima e Nagasaki (agosto 1945) e la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz (gennaio 1945) svelano la follia e l’insensatezza dei comportamenti dell’uomo al limite della distruzione del genere umano. Proprio in questo momento, alcuni artisti ritengono che l’arte possa far affiorare l’ipotesi di un altro mondo, di una realtà che cerca di disarticolarsi da quella esistente anche solo come negazione di ciò che c’è.

L’arte, insomma, può far diventare senso anche l’assenza di senso e l’artista ha una responsabilità di fronte alla crisi delle parole e delle immagini.

Il gesto nell’Informale

L’Informale italiano si sviluppa seguendo due traiettorie. La prima valorizza il segno pittorico e il gesto dell’artista ed è quella che più si avvicina all’Action Painting americana (legato, a sua volta, all’Astrattismo e al Surrealismo europeo).

L’altra, invece, è materica, valorizza i rifiuti, gli scarti, e il colore a olio utilizzato come una pasta densa. Il massimo esponente è Alberto Burri.

Nel Dopoguerra, la situazione artistica italiana è caratterizzata da una diatriba tra Astrattisti e Realisti legata a motivi politici. La Sinistra ufficiale, infatti, non vede di buon occhio l’Astrattismo perché si allontana da quell’arte realista, immediatamente comprensibile al popolo, che è raccomandata dai vertici della nomenclatura sovietica.

Lucio Fontana e lo Spazialismo

Dal 1947, a Milano, Lucio Fontana (1899-1968) intuisce un nuovo concetto rivoluzionario per l’epoca, lo spazio, e compila il suo Manifesto dello spazialismo.

Per andare oltre il dipinto, Fontana squarcia letteralmente la superficie. Perché? Fontana non è un pittore tradizionale ma uno scultore di formazione: non concepisce, dunque, la tela come una superficie destinata ad accogliere forme e colori bensì come un oggetto plastico da modellare. Non rappresenta lo spazio, lo crea.

I tagli di Fontana sono spesso citati come emblema di quell’arte contemporanea di fronte alla quale gli spettatori più scettici esclamano: “Lo potevo fare anche io!” e invece nascondono dietro alla loro apparente semplicità un meticoloso iter tecnico.

Il procedimento tecnico di Fontana

Dopo aver scelto attentamente la tela dalla grana più adatta, l’artista ricopre entrambi i lati del supporto con una densa vernice bianca mescolata a resine industriali. Poi, è necessario fissare la tela al telaio tramite chiodi e punti metallici per evitare di diminuire la tensione e provocare piccoli sollevamenti una volta incisa la superficie. Il fronte della tela viene, in seguito, colorato sperimentando varie tecniche, dalla pittura a olio alla idropittura.

Prima che la superficie sia completamente asciugata, l’artista esegue un taglio netto facendo scorrere a velocità moderata il suo leggendario taglierino Stanley. Serve una mano molto ferma per evitare di ritrovarsi con tagli irreversibilmente deludenti che avrebbero vanificato tutto il lavoro di preparazione.

A questo punto, Fontana modella a mano i bordi dello squarcio dando loro una forma concava più estetica e fissa con colla Vinavil spesse strisce di garza nera dietro i due lembi del taglio, un’aggiunta sia funzionale che simbolica. Se da un lato, infatti, questi robusti tessuti impediscono ai bordi di deformarsi nel corso del tempo e nascondono il muro alle spalle della tela, dall’altro, il loro colore nero accentua l’aura misteriosa del taglio, connotandolo come uno spiraglio aperto verso un oscuro infinito.

arte Informale Italia Fontana
Fontana, Concetto spaziale. Attese, 1964, Torino, GAM

Molto interessante è il retro dei Concetti spaziali, dove oltre al titolo dell’opera, alla firma dell’autore e alle garze nere incollate dall’artista dietro alle sue fenditure, Fontana annota frasi variegate (“Incomincio a essere stanco di pensare”, “Voglio bene a Teresita”) interpretate da alcuni storici dell’arte come uno stratagemma per difendere le sue creazioni dai falsari.

Concetti spaziali: buchi e tagli

Fontana inizia nel 1949 a farsi spazio attraverso le tele creando costellazioni di buchi aperti verso un ignoto altrove, primo sforzo concettuale dello spazialismo, per arrivare dieci anni più tardi alla loro naturale estensione: i tagli, da soli o in gruppo, obliqui o verticali, più o meno lunghi o larghi ma sempre realizzati con una straordinaria perizia tecnica.

LE OPERE DI FONTANA in una visita virtuale nel Museo del Novecento di Milano

Questi squarci sono le tracce di una performance realizzata dall’artista in un momento di solitaria intimità. Quando nel 1964 Fontana decide di aprire le porte del suo studio milanese a Ugo Mulas, chiede al fotografo di poter posare di fronte a una tela già conclusa fingendo di averla appena tagliata. “Non è che entro in studio, mi levo la giacca e trac!, faccio tre o quattro tagli”, gli spiega.

Il gesto generatore di Fontana

Gli serve una grande concentrazione, al limite della meditazione, per compiere un gesto demiurgico, generatore appunto, che crea nuovi spazi e nuove profondità in un inedito oggetto d’arte liberato dalla sua tradizionale bidimensionalità e aperto a una galassia di opportunità. Da quelle fessure, il fronte e il retro della tela, il di qua e il di là, la luce e l’ombra iniziano a interagire tra loro in una sorprendente unità spazio-temporale. Spogliata, bucata e lacerata, da supporto funzionale la tela diventa essa stessa opera d’arte, né quadro né scultura.

Non ci può essere una pittura o scultura spaziale ma solo un concetto spaziale dell’arte”, espressione che ritroviamo spesso nei titoli delle circa 1500 tele da lui tagliate nell’arco di dieci anni, dal 1958 al 1968, talvolta accompagnata dalla parola attesa, uno stato d’animo che accomuna artista e spettatore in contemplazione di fronte a questi squarci che sono “il mistero, l’incognito dell’arte, sono l’attesa di qualcosa che deve succedere”.

Alberto Burri: l’Informale materico

Alberto Burri (1915-1995) fa esperienza di prigionia nella seconda guerra mondiale: catturato in Tunisia dagli inglesi, è trasferito in Texas, dove comincia a dipingere per passione. Tornato in Italia, la sua ricerca parte dai materiali poveri, ordinari, esclusi dalla tradizione della pittura: i sacchi di iuta usati nei trasporti ferroviari e postali, i legni combusti, i ferri arrugginiti, le plastiche bruciate e lacerate, i cretti, frazioni di terra spaccata.

Le Combustioni di Burri

arte Informale Italia Burri
Burri, Rosso plastica, 1964, plastica e combustione su tela

Dal punto di vista formale si può ancora parlare di pittura, visto che buona parte delle opere di Burri sono bidimensionali, ma non c’è più nulla di pittorico in questi nuovi materiali riassemblati come quadri ma che quadri non sono più.

Le Combustioni, appunto, sono opere realizzate utilizzando il fuoco, mediante fiamma ossidrica, con cui si ottiene la lacerazione della materia in squarci, grinze, addensamenti. La tecnica, tuttavia, non ostacola un raggiungimento formale e uno straordinario equilibrio cromatico.

I cretti di Burri

Dagli inizi degli anni Settanta, Burri cambia nuovamente supporti e materiali ricorrendo a vinavil e caolino (un tipo di roccia sedimentaria) mischiati a pigmenti e applicati su cellotex, un materiale povero di uso industriale costituito da particelle di segatura e colla pressati assieme.

L’applicazione di tali prodotti su cellotex porta ad un processo di disidratazione che crea rotture e crepe sulla superficie materica creando una composizione plastica dall’effetto drammatico.

Burri, Cretto Bianco, 1975

Bibliografia

Gillo Dorfles, Angela Vettese, ARTI VISIVE, IL NOVECENTO, Atlas, 2002; Luca Beatrice, Da che arte stai?, Rizzoli, 2021;
Jacopo Veneziani, Simmetrie, Rizzoli, 2021.

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